L’incontro, l’ospitalità, la ricerca

di Maria Annunziata Tentoni

 

Envers lui, peut etre plus qu’envers d’autres, 

va notre prompte et immédiate responsabilité.

Non seulement, il nous faudrait accepter l’im-

migré tel qu’il est, mais l’aider à s’épanouir en

 notre milieu, à s’insérer dans notre langue; car,

en fin de compte, la langue est la rèelle patrie

                         de l’exilé. 

(Edmond Jabès)

Si è tenuto a Rimini, nei primi mesi del 2008, un laboratorio di scrittura autobiografica con donne migranti, denominato “Verso di sé”, che faceva parte di un progetto più ampio: “Vite in transito”. 

Vite in transito sono quelle dei e delle migranti, ma anche le vite di ognuno di noi si configurano come transiti; ognuno di noi opera delle migrazioni reali o simboliche, la prima delle quali è la nascita e poi via, via transitiamo attraverso i passaggi di età, di status; nelle esperienze esistenziali e relazionali spesso varchiamo una soglia e a ogni nuovo temporaneo approdo ci accorgiamo che abbiamo percorso lo spazio tra : tra il prima e il poi, tra qui e là, tra noi e l’altro. 

Anche questo laboratorio è stato un transito per chi lo ha fatto e chi lo ha condotto.

Vorrei proporre una riflessione su 3 tematiche, che sono state le motivazioni forti che hanno sotteso questa esperienza per me e per le altre conduttrici:

l’incontro, l’ospitalità e la ricerca.

 1 L’incontro.

Ci ha mosso un desiderio di incontro.

Un’esigenza civile: contribuire a costruire  una nuova, diversa cittadinanza, inclusiva delle minoranze, delle differenze.

Abbiamo la consapevolezza che le migrazioni – spostamenti migratori ingenti e inarrestabili- sono segno dei tempi. 

Da questo inedito possiamo difenderci con politiche identitarie e securitarie- è quello che succede oggi in Italia, in Europa, nel mondo.

La difesa ci fa erigere muri, reali e simbolici, che escludono l’altro. Diventiamo così prigionieri di noi stessi, ci impoveriamo umanamente.

Quello che succede oggi nelle nostre città, (basta leggere la cronaca: Rimini, Napoli, Milano, Roma, Treviso, Verona.. ) il razzismo che si diffonde, la ferocia, la perdita di senso, sono sintomo di una società malata, di degenerazione e di debolezza.

Vittime della fabbrica della paura, che alimenta le nostre paranoie e i nostri fantasmi di invasione e contaminazione da parte degli straneri, dei diversi, portatori del male, minaccia alle nostre fragili identità, possiamo chiuderci nel nostro etnocentrismo.

Dimentichi che lo straniero è in noi, come sostiene Julia Kristeva, psicoanalista e semiologa, in un bellissimo libro: Stranieri a noi stessi.

Lo straniero in noi è l’inconscio, quell’area di noi che non conosciamo e che ci inquieta e ci spaventa; qualcosa che neghiamo e mettiamo fuori di noi, in qualcun altro, in un oggetto esterno.

E’ così che nasce lo straniero fantasmatico, il nemico, il capro espiatorio.

La rappresentazione dello straniero che ci muove, nasce per lo più dalle nostre proiezioni, è lo schermo che opacizza il nostro sguardo nel percepire l’altro, che ci ostacola nel movimento dell’incontro.

 C’è un’alterità che ci abita, – cosa che aveva ben chiara Rimbaud quando scriveva:

 io è un altro-. 

Alterità interna difficile da riconoscere; se la riconoscessimo, non rimarremmo attaccati all’idea di un’improbabile identità monolitica da difendere e contrapporre a identità altre e straniere; in realtà tutti abbiamo delle identità plurali.

La consapevolezza della nostra complessità può permetterci di uscire dai nostri arroccamenti interni e dagli etnocentrismi.

Possiamo fare dei tentativi di “autorelativizzazione” e fare un movimento di “approssimazione” alle altre culture, come recita il titolo di un libro di Franco Cassano. 

“Il rapporto con le culture “altre”, la tolleranza, e l’apertura  laddove c’era una rigida contrapposizione permettono un arricchimento della nostra sensibilità” , una pietas, che prima non c’era”. ( F. Cassano, Approssimazione 1989, p.112 )

 L’apertura, il disarmo culturale, per cui rinunciamo alla pretesa inconfessata e forse inconsapevole di una superiorità del nostro mondo, sono le condizioni per costruire un’umanità ospitale, dove tutti ci possiamo sentire a casa nostra.

E’ Raimon Panikkar che parla di culture armate e di disarmo culturale. 

Per far questo abbiamo bisogno di una nuova antropologia, abbiamo bisogno di studi interculturali, di incontrare e imparare dagli altri; imparare dall’esperienza.

Il dialogo tra culture è un lento processo esperenziale, un processo di approssimazione.

Per dialogare dobbiamo decentrarci; per avvicinarci all’altro è necessario situarsi in un posto di confine, ai margini della propria cultura; non si tratta di convertirsi, rifacendo il più antico e famoso dei viaggi tra universi simbolici, di lasciarne uno per abbracciarne un altro, ma di rimanere all’interno del proprio lavorando su quegli angoli dove è più facile produrre crepe e far entrare vibrazioni ( Cassano op. cit. , p. 110).

Far coesistere le differenze.
Vivere a livello culturale, quello che i migranti sono stati costretti a fare concretamente: perdere la patria, e quindi la sicurezza; perdere il centro permette di avvicinarsi all’altro, trovare un posto accanto a lui. 

Lasciarsi trasformare dall’incontro, vivere un’esperienza di ibridazione.

Certo, questo decentramento, questa dislocazione è dolorosa, come lo sono l’esilio e la migrazione.

Edward Said, che ha esperito e indagato l’esilio e il rapporto tra culture e mondi diversi, scrive che l’esperienza di sradicamento di esuli e migranti è fonte di sofferenza ma anche di creatività, che l’attraversamento dei confini “può regalarci nuove strutture narrative”, altre modalità di racconto. (E. Said,  Nel segno dell’esilio 2008, p. 367)

Si situa qui la nostra intuizione della potenzialità creativa- e riparativa- di un laboratorio di scrittura autobiografica con donne migranti.

Qui sorge una domanda: perché solo donne?

E’ evidente che quella di genere è una differenza nella differenza; come le differenze culturali comportano declinazioni molteplici e variegate nel modo di vivere la differenza sessuale, così la differenza di genere per una donna migrante si aggiunge alla diversità di cultura e dà una coloritura diversa all’esperienza del distacco, dello sradicamento, ai problemi dell’inserimento nel nuovo paese.

Ci ha anche motivato nella scelta l’ipotesi -confermata da esperienze simili già fatte in altre città- che tra donne sarebbe stato più facile esprimersi, condividere emozioni e racconti personali ed intimi.

Era sostanzialmente un modo di riconoscere e fare spazio al linguaggio della differenza sessuale.

E’ una scelta di uscire dal neutro, di localizzarsi. 

Come tra le culture, è necessario un movimento di approssimazione anche nel rapporto tra i sessi; e anche questa approssimazione, come le altre, richiede di evidenziare il posto da cui si parla, il linguaggio che si usa, di esplicitare la propria localizzazione.

Come le culture, anche la differenza di genere vuole le sue narrazioni. 

Il nostro desiderio di esplorare le terre di mezzo e di incontrarvi queste donne, come noi conduttrici e diversamente da noi, transeunti, era dunque rinforzato dalla consapevolezza che la narrazione di sé era per loro un bisogno.

E siamo partite per questa avventura, per questo inedito.

Ne è nata un’esperienza molto ricca e molto arricchente.

E’ difficile comunicare la passione, l’affettività, la convivialità reale e simbolica, l’entusiasmo che l’hanno sostanziata.

Io sono molto grata alle persone con cui ho condiviso questo transito.

E’ nata e/o si è rinsaldata un’amicizia tra noi conduttrici.

Nell’incontro tra noi e le partecipanti il clima affettivo che si è subito creato, – che abbiamo saputo creare insieme, – e il piacere di incontrarsi e di raccontarsi hanno favorito una crescita personale di tutte: delle partecipanti e nostra; e ha permesso l’espressione e lo sviluppo della loro creatività.

Nell’incontro si è creata una casa comune.

Le partecipanti, che si sono sentite riconosciute e accolte, hanno potuto sentire di far parte di un gruppo e sentirsi a casa; una di loro sin dalla prima volta ha detto: “è come essere a casa”. 

Pur venendo le une da un capo del mondo, l’America latina, le altre da un altro capo del mondo, l’Europa dell’est, si sono riscoperte vicine, solidali; condividendo i loro racconti di vita, hanno condiviso emozioni ed ansie, problemi e progetti.

C’è stata una fioritura personale.

A questa sensazione di benessere e di “casa”, che le partecipanti esperivano e ci comunicavano, ha contribuito anche la qualità dello spazio dove avvenivano i nostri incontri: uno spazio non solo bello e accogliente ma anche dotato di alto valore simbolico.

Il luogo dove si sono dipanati per 3 mesi i nostri incontri e le narrazioni è il Museo degli Sguardi di Rimini: un museo etnografico, che ospita manufatti di culture diverse, era il luogo ideale per l’incontro tra persone che sono portatrici di culture diverse, che qui si sentivano a casa e ascoltavano, si pensavano, scrivevano.

Anche la scrittura ha contribuito a questa sensazione di casa.

C’è una lunga tradizione che dice che  la scrittura è la casa.

Edwar Said, appoggiandosi ad Adorno, sostiene che l’unica casa oggi ancora accessibile, per quanto fragile e vulnerabile, è rappresentata dalla scrittura (op.cit,  p. 229 ); e questo tipo di casa è tanto più importante per l’esule e il migrante che vivono un’esperienza di sradicamento.

La casa rimanda all’ospitalità.

L’ospitalità

Nella nostra esperienza a questo riguardo c’è stata un’evoluzione.

Siamo partite da un’iniziale esperienza di spaesamento, di nomadismo, di migrazione; anche noi, come gruppo ci siamo ritrovate alla ricerca della casa, di un posto dove stare: la sede designata per svolgere i nostri incontri risultava occupata. 

C’è stato conseguentemente un dislocamento, che ha provocato un disorientamento.

Alcune partecipanti, pur avvertite, si erano sbagliate di posto, non arrivavano alla sede, provvisoria, del primo incontro.

Siamo poi approdate al museo degli Sguardi, che ci ha offerto stabilmente ospitalità.

L’ospitalità è anche una qualità della relazione.

L’ospitalità nasce dal riconoscimento.

R. Panikkar, ( 1990) abitatore di terre di mezzo, parla di modi diversi di porsi in relazione a seconda che ci si relazioni all’altro come aliud o all’altro come alius ; nel primo caso c’è una reificazione, l’altro è considerato alterità, viene ricacciato nel neutro, nell’indifferenziato; nel secondo caso l’altro viene riconosciuto come portatore di una storia, una cultura, un sapere, un’affettività.  

L’ospitalità si dà quando l’altro acquista un volto e un nome, quando l’altro diviene tu; diviene principio di iniziativa e può condividere sé stesso.

Ospitare vuol dire concedere in sé stessi un posto all’altro.

Questa accoglienza è ibridativa, non si può ospitare e accogliere l’altro senza uscirne creativamente trasformati; a livello storico il contatto tra culture diverse ha dato vita a contaminazioni che sono nuove creazioni: ne sono un esempio la musica e la cucina. 

C’è anche un’ ospitalità della lingua.

Le partecipanti, che avevano una buona conoscenza della nostra lingua, hanno scritto in italiano. Per loro l’italiano era la lingua dell’altro, ma era anche il medium che permetteva la comunicazione reciproca, era anche la lingua che ha offerto loro ospitalità.

Su questo ritornerò più avanti.

3 La ricerca

La terza dimensione di questa esperienza è stata la ricerca, il desiderio di conoscenza, declinato per ognuna di noi conduttrici (portatrici di storie e competenze diverse: una antropologa, una esperta di autobiografia, io psicoanalista ) su un registro in parte comune, in parte divergente. Ci accomunava l’interesse per l’autobiografia, per la scrittura, per la relazione; ci diversificavano interessi specifici.

La mia ricerca mi portava e mi porta a indagare:

– il rapporto tra autobiografia e psicoanalisi

-il ruolo giocato dalla lingua dell’altro

-la figura dello straniero

Il rapporto autobiografia e psicoanalisi

L’autobiografia è un modo di andare verso sé stessi, come e diversamente dalla psicoanalisi. 

Comune a psicoanalisi e autobiografia è il racconto della propria vita; anche se declinate con modalità e forme diverse, la narrazione di sé, la ricostruzione della propria storia, la risignificazione della propria esperienza sono presenti in entrambe.

Tra le due c’è però una differenza di fondo: l’elemento relazionale. 

Nell’analisi c’è un rapporto di relazione, che è fondante; la conoscenza, il pensiero, il cambiamento dell’analizzando, si dà all’interno della relazione con l’analista; una relazione particolare, basata sul transfert e sul controtransfert, sul dialogo.

L’autobiografia è qualcosa che si gioca tra sé e sé; in realtà, a ben guardare, anche l’autobiografia è un evento relazionale: c’è sempre un destinatario, un possibile lettore, che è presente nella mente di chi scrive; c’è una relazione tra soggetto narrante e soggetto narrato ma tutto si svolge appunto solo nella mente del soggetto.   Giovanni Starace in un saggio su psicoanalisi e autobiografia scrive: “Anche quando si stendono memorie o considerazioni in completa solitudine, e nonostante queste siano di natura più che privata, la mente si popola di interlocutori reali o immaginari che raccolgono quelle parole”. (G. Starace Il racconto della vita, 2004, p.19 )

Nella nostra esperienza di questo laboratorio di scrittura autobiografica c’è stato un ulteriore elemento relazionale: il gruppo.

Il gruppo, che si è venuto a creare, accogliente e conviviale, ha dato ad ognuna delle partecipanti il contenimento necessario per poter rivivere e pensare esperienze a volte dolorose e traumatiche. 

Il gruppo è stata una membrana; le partecipanti parlavano di una sensazione di protezione e di benessere: una di loro, una volta, parlando di questa percezione, ha fatto con le mani il gesto di qualcosa di avvolgente.

E’ in questa cornice, in questo bozzolo, che è fiorita la scrittura, tanto è vero che alcune di loro scrivevano solo nel gruppo.

Per una felice combinazione, il buon clima che si respirava ha permesso loro di ritrovare sé stesse nel mito personale; la narrazione di sé ha preso forma passando attraverso la rimemorazione.

In comune l’analisi e l’autobiografia hanno un lavoro sulla memoria.

Senza memoria non ci può essere consapevolezza della propria storia e quindi non ci può essere senso di sé, della propria identità.

E’ il riconoscimento delle proprie radici, il poter ritrovare la collocazione di sé in una trama familiare, sociale, il collocarsi nel susseguirsi delle generazioni che permette di trovare la propria stabilità e dà alla propria vita un senso di sicurezza;

una trama di affetti e legami sottende l’identità. 

Ritrovare queste trame attraverso il ricordo e la rimembranza può stimolare la creatività.

Il mito greco non a caso narra che le muse, cioè le arti, la poesia, sono figlie di Mnemosyne, della memoria. 

Ma il lavoro sulla memoria ha anche una valenza riparativa.

Alcune delle partecipanti al laboratorio per verificare e confermare i loro ricordi hanno ripreso contatti con familiari, recuperato legami, e acquisito un sentimento di orgoglio rispetto alla propria famiglia e quindi di valore di sé.

La funzione riparativa passa anche attraverso la scrittura.

La scrittura in sé, non solo quella autobiografica, può dare consistenza al proprio io.

Chi scrive per raccontarsi ripensa il proprio passato per risignificarlo e questo ha un valore evolutivo.

Nel racconto di sé la narrazione di fatti antichi è colorata da emozioni attuali, il presente filtra il passato e si mescola a sentimenti senza tempo.

In questi racconti, in questi scritti, una costante è la nostalgia, che nasce dal senso di perdita – dal lutto -: qualcosa, che c’era una volta, non c’è più.

Nostalgia per i luoghi lontani ma soprattutto per il tempo perduto, per le emozioni vissute, per un sé stesso perduto; c’è la tristezza, l’infelicità ma anche la creatività.

Il nuovo racconto vuole chiudere con il passato, prenderne le distanze per cominciare una nuova vita.

L’ospitalità della lingua

-Je n’ai pas, vraiment, de terre,

J’ai, du livre, fait mon lieu

Sono parole di Jabès, che ha conosciuto l’esperienza dell’esilio e si riconosce nell’esperienza dell’erranza propria del popolo ebraico: scopre il valore dell’ospitalità della lingua francese, la lingua dell’altro che diviene la sua patria, perché “la lingua è la vera patria dell’esiliato, dell’immigrato” e la scrittura, il libro diviene ancora una volta la casa, il luogo dove abitare. 

 Le partecipanti al laboratorio di scrittura autobiografica, che, attraverso il movimento migratorio, sono approdate nel nostro paese, hanno chiesto, e credo abbiano ottenuto, ospitalità alla lingua italiana. 

Contrariamente a quanto qualcuna di noi si aspettava, visto il carattere molto soggettivo e a volte intimo del loro raccontarsi, le nostre scrittrici non hanno usato la lingua materna nei loro scritti. Due di loro lo hanno fatto nei primi incontri, poi sono passate all’uso dell’italiano.

La lingua materna è quella dell’affettività, dell’interiorità, e si potrebbe pensare che andare verso di sé sia più naturalmente esperito in questa lingua.

Evidentemente in questo caso sono entrati in gioco altri fattori.

Spesso queste donne hanno lasciato dietro di sé esperienze traumatiche a livello personale, familiare e/o sociale; spesso sono questi drammi che hanno motivato l’emigrazione. Andare lontano, in un altro paese, in un altrove che viene immaginato salvifico, luogo di rigenerazione, di benessere: “un nuovo mondo”.

Una vita nuova, lontano dai conflitti, dalla sofferenza, dalla miseria.

Difficilmente l’esperienza reale corrisponde alle aspettative; non solo per le frustrazioni, i problemi, le difficoltà che aspettano il migrante nel nuovo paese ma per un dato di base.   

L’emigrazione comporta uno sradicamento, che di per sé è un trauma.

Quando c’è un trauma, quando c’è un lutto da fare rispetto a esperienze dolorose, a perdite, allora la lingua dell’altro acquista una funzione salvatrice.

E’ Janine Altounian che ha molto elaborato e scritto sulla funzione salvatrice della lingua dell’altro.

Nel suo caso il trauma era il genocidio degli armeni, a cui i suoi genitori erano scampati, per poi approdare e trovare rifugio in Francia; ma la Altounian sostiene che anche lo sradicamento, l’emarginazione, la miseria sono esperienze traumatiche.

Il trauma a livello psichico crea una frattura; non c’è distanza psichica possibile e quindi non è elaborabile.

Non è possibile né la rimozione, né il processo liberatorio del lutto; un processo psichico che permette di staccarsi e abbandonare quello che non serve più ma è anzi di ostacolo alla crescita, e nello stesso tempo permette di riconoscere un’eredità da interiorizzare e mettere a frutto per poter continuare il cammino e la propria vita.

Ci vuole un terzo, che permette il distanziamento e quindi l’elaborazione dell’esperienza traumatica.

La cultura dell’altro, la scuola, la lingua dell’altro può essere il terzo, la madre adottiva per i “sinistrati”.

E’ la lingua dell’altro – degli autoctoni – che può dare ospitalità: allora è possibile raccontare la propria storia, pensare la propria condizione in questa lingua ospitante. 

Se c’è qualcosa di indicibile, non può essere pensato e detto nella lingua materna ma può essere detto in un’altra lingua, che è come “un lenzuolo”, in cui questo indicibile può essere avvolto per poter trovare sepoltura, per poter essere abbandonato in modo da lasciare spazio al nuovo che nasce. 

La figura dello straniero

Questa esperienza di incontro con donne venute da lontano, “straniere”, per noi conduttrici ha avuto chiaramente una componente soggettiva,“autobiografica”, cioè di ricerca personale, a livello psichico ; è stato un modo di esplorare il gioco della nostra identità; è stata anche un viaggio alla ricerca dello straniero che ci abita, dello sconosciuto che è in noi; ed è quello che ha portato all’ospitalità.

C’è a livello sociale e culturale una rappresentazione dello straniero che è fonte di violenza e nasce da un attaccamento difensivo ad una presunta identità monolitica contrapposta all’alterità; una identità fittizia, che si abbarbica a radici originarie, piuttosto che riconoscere i rizomi, dove le radici molteplici e varie si intrecciano. 

L’identità è invece attraversata dalla differenza; l’altro è in noi. 

Ridurre la distanza tra noi e l’altro, conoscere l’altro è un modo di andare verso di sé.

Antonio Prete scrive che la figura dello straniero è quella dello spaesamento.

“Questo spaesamento del sé, questo riconoscimento dello straniero che è in noi, conduce al riconoscimento dello straniero che è l’altro. Un riconoscimento che ha il ritmo della fraternità. L’ospitalità, figura nomade e mediterranea, ha radice in questo duplice riconoscimento”.  ( Trattato della lontananza, p.87)

Bibliografia

J. Altounian “Ouvrez-moi seulement Les chemins d’Armenie” un genocide aux desert de l’inconscient”,  Paris, Les belles lettres, 2003

J. Altounian L’intraduisible deuil,mémoire, transmission,  Dunod, Paris, 2005

F. Cassano Approssimazione,  Bologna, Il Mulino, 1989

S. Ferrari Scrittura come riparazione Laterza, Roma-Bari, 1994

L., R. Grinberg 1982, Psicoanalisi dell’esilio e dell’emigrazione, Milano, 

 Franco Angeli, 1990

E. Jabès Le livre de l’hospitalitè,   Paris, Gallimard, 1991 ; trad. it. Di Antonio Prete

Il libro deell’ospitalità, Milano, Cortina, 1991

E. Jabès Un ètranger avec, sous le bras, un livre de petit format, Paris, Gallimard, 1989; trad. it di Alberto Follin Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato, Milano SE, 1991

J. Kristeva, étrangeres à nous me^mes, Paris,  Gallimard, 1988

Leghissa Il gioco dell’identità ( differenza, alterità, rappresentazione ), Milano, Mimesis, 2005

R. Panikar La torre di Babele,  S. Domenico di Fiesole (Fi), Ed. Cultura della pace, 1990

A. Prete Trattato della lontananza, Torino, Bollati Boringhieri, 2008

E. Said Nel segno dell’esilio  Milano, Feltrinelli, 2008

G. Starace Il racconto della vita Torino, Bollati Boringhieri, 2004